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Poesia come sport alle Olimpiadi

Poesia e sport: due mondi apparentemente distanti, ma uniti dalla performance e dal desiderio di creare spettacolo. Entrambi celebrano l'arte

Poesia e sport: due mondi apparentemente distanti, ma uniti dalla performance e dal desiderio di creare spettacolo. Entrambi celebrano l’arte del corpo e dello spirito, una connessione che affascinava profondamente il barone Pierre de Coubertin, il visionario dietro i moderni Giochi Olimpici. Nel suo rapporto ufficiale sui Giochi del 1896 ad Atene, Coubertin respinse ogni critica, ribadendo con fermezza: “Riaffermo ancora una volta la mia rivendicazione di essere l’unico autore dell’intero progetto.”

La sua visione delle Olimpiadi moderne era fortemente influenzata dalla letteratura. Fondò persino una rivista, La Revue Athlétique, con l’obiettivo di suscitare l’interesse per gli sport in Francia, anche se lui stesso non era un atleta. De Coubertin, gesuita di formazione, venerava l’ideale atletico dell’antichità, unendo corpo e spirito. Scrisse che Olimpia era “una città di atletica, arte e preghiera”, e sottolineò che il carattere sacro ed estetico della città era una conseguenza della sua vocazione atletica.

Per onorare questa visione, de Coubertin introdusse anche una competizione artistica nei Giochi Olimpici, con opere che dovevano essere inedite e ispirate allo sport. La competizione letteraria dei Giochi di Stoccolma del 1912 vide meno di dieci partecipanti, ma tra loro spiccavano figure di rilievo come Marcel Boulenger, romanziere e medaglia di bronzo nel fioretto nel 1900, il simbolista Paul Adam, e il drammaturgo svizzero René Morax. Tuttavia, la giuria assegnò l’oro a due misteriosi autori tedeschi, Georges Hohrod e Martin Eschbach, per la loro “Ode allo Sport”, un’opera che celebrava l’atletica in una forma tanto letteraria quanto muscolare. Le loro idee erano “organizzate con logica e armonia impeccabili”, secondo la giuria.

Ma Hohrod e Eschbach non esistevano. Erano pseudonimi dietro cui si celava lo stesso de Coubertin, che così vinse la competizione da lui stesso organizzata. Questa scelta ha lasciato perplessi molti storici olimpici. Solo anni dopo de Coubertin confessò la sua paternità dell’opera. Fu ingannevole nel presentare un’opera sotto falso nome, o cercava semplicemente un giudizio equo? Rimane un mistero.

L’ode, nonostante le lodi della giuria, appare oggi enfatica e eccessiva: “Con dritti e nobili sentieri tu tendi verso una razza più perfetta,” proclama, “spezzando i germi del male e correggendo i difetti che minacciano la necessaria salute.” Forse la giuria voleva giustificare l’inclusione della letteratura nei Giochi Olimpici, esaltando uno scritto che non regge il peso della sua stessa retorica.

Secondo lo storico Tony Perrottet, molte delle poesie olimpiche sono misteriosamente scomparse, probabilmente a causa della loro dubbia qualità letteraria. Perrottet, insieme ad altri ricercatori, ha riscoperto Canzoni della Spada, l’opera che valse a Dorothy Margaret Stuart una medaglia d’argento ai Giochi di Parigi del 1924. Tuttavia, i suoi versi fioriti appaiono oggi datati, talvolta paragonabili a una parodia dei Monty Python.

La poesia di Stuart è divisa in quattro sezioni. La prima descrive una lotta tra gladiatori romani:
“In bilico come due querce piegate dalla tempesta
le cui fronde sono intrecciate,
i gladiatori lottano.”

La seconda narra uno scontro tra uno scozzese e un olandese:
“Gli uomini non respiravano quando correvano,
lancia contro lancia e cavallo contro cavallo.”

La terza sezione si conclude con la cruda descrizione di un duello del XVI secolo in Francia:
“Con occhi spalancati, labbra esangui,
vidi il suo volto inclinarsi in avanti…
mentre lungo la sua coscia scorrevano spruzzi scintillanti di sangue.”

Infine, Stuart chiude con una ballata più leggera, celebrando l’arma protagonista:
“Ora che i brevi canti finiscono e i fantasmi svaniscono,
canto dello spirito che dimora sulla brillante lama grigia.”

Il verso d’occasione è un genere a sé, e le Olimpiadi, con la loro grandezza e retorica, raramente lasciano spazio alla moderazione, poetica o altrimenti. Non sorprende quindi che durante la cerimonia di chiusura dei Giochi del 1924, de Coubertin abbia sottolineato: “Non basta solo l’atletismo, vogliamo la presenza del genio nazionale, la collaborazione delle muse, il culto della bellezza… tutto ciò che i Giochi Olimpici hanno incarnato nel passato e devono continuare a rappresentare nel presente.”

Le Olimpiadi del 1948 a Londra furono l’ultima occasione in cui l’arte fece parte delle competizioni. L’anno successivo, il Comitato Olimpico decise che “sembrava illogico che i professionisti competessero in queste mostre e ricevessero medaglie olimpiche.” Tra gli ultimi vincitori spiccano Aale Tynni, prima donna a vincere l’oro, ed Ernst Van Heerden, poeta sudafricano apertamente gay, che vinse l’argento. Van Heerden celebrò l’atletica nel suo componimento “Il sollevatore di pesi”:


“L’appiccicosa presa del suolo
moltiplica ogni chilo,
la ruvida treccia del muscolo
è—trionfalmente!—un bruto animale
che con un rapido scatto fulmineo
regola il fulcro del peso.”

L’arte, un tempo parte integrante delle Olimpiadi, alla fine lasciò il passo al solo agonismo sportivo, ma la visione di de Coubertin rimane un ricordo di un’epoca in cui lo sport e la poesia si intrecciavano nell’arena olimpica.